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Accrescere La Vita Senza Distruggere Il Mondo

Accrescere la vita senza distruggere il mondo

di Chiara Giaccardi

Dopo decenni in cui l’unica idea di crescita è stata quella basata sui consumi, sulla finanziarizzazione spinta (che neppure la crisi del 2008 ha contribuito a mettere in discussione), su un atteggiamento estrattivo nei confronti del pianeta e di sfruttamento nei confronti delle persone, con la produzione di troppi scarti sia ambientali che umani, è giunto il momento di cambiare passo. Il livello di entropia – intesa come misura del disordine che, attraverso frammentazione e dedifferenziazione, porta il sistema alla sua morte – è ormai preoccupantemente alto. Il livello di paura che caratterizza le società contemporanea è diventato così elevato da bloccare persino la capacità di iniziativa (economica ma anche riproduttiva) individuale.

Una delle parole chiave di questo tempo complesso, uno dei driver più potenti per il cambiamento percepito come necessario per il Paese, è “sostenibilità”.
Un termine che evoca dinamiche di conversione ecologica, di rigenerazione, di rilancio dell’economia su basi più eque. Ma il rischio di una nuova retorica, che maschera il mantenimento di quello status quo che ci ha portato fin qui, nonché l’inasprirsi delle disuguaglianze (interne e a livello mondiale) è tutt’altro che remoto.
Se persisterà la logica sovranista dell’io (ego, impresa, stato) assoluto che ha caratterizzato la modernità, se non si prenderà sul serio la necessità di un cambiamento reale e profondo, la sostenibilità sarà solo una nuova strategia di marketing; dove ciò che è sostenibile per qualcuno, in qualche ambito, da qualche parte del mondo diventerà sempre più insostenibile per qualcun altro, in altri ambiti e in altre parti del mondo, con un aumento drammatico dell’entropia a tutti i livelli. Una sostenibilità economica che non si pensi in relazione alla sostenibilità ambientale e sociale (che implica anche il patto tra le generazioni) non potrà mai essere tale. La sostenibilità o è integrale o non è.
Se non vuole ridursi a un’etichetta di facciata che non cambia nulla, “sostenibilità” deve significare proprio questo: ogni attore sociale ‒ sia esso Stato, impresa, territorio, associazione, Chiesa ‒ non può più pensarsi se non nel quadro della rete complessa di relazioni in cui opera. Solo su questa base sarà possibile edificare un mondo più “sicuro”.

Dobbiamo prendere atto di quello che la scienza, dalla fisica quantistica alla biologia alle neuroscienze, ci sta dicendo da tempo: tutto è in relazione. Perciò la sovranità individuale, che sia quella della nazione, dell’impresa, dell’io, è un’astrazione ‒ che genera insostenibilità e accresce l’entropia.
La concretezza è quella dell’entanglement, della reciproca influenza, della reciprocità, del non potersi pensare “a prescindere”. E non principalmente per ragioni morali, ma perché si prende atto del tessuto fittamente intrecciato degli elementi che costituiscono la realtà, nello spazio e nel tempo, come la scienza ci insegna. Abbiamo chiamato questa consapevolezza “inter-indipendenza”1 , un neologismo che coglie la sfida di “ripensare la libertà in condizioni di non sovranità”, come raccomandava Hannah Arendt, senza rinunciare allo spirito di iniziativa, alla capacità creativa e innovativa, alla sperimentazione; ma sempre nella consapevolezza del legame, che è un vincolo benefico ‒ e, in ogni caso, la condizione per contenere gli effetti entropici che stanno distruggendo il mondo.

Due fattori sono allora decisivi per provare ad accrescere la vita senza distruggere il mondo.
Il primo riguarda la scienza, la tecnologia, la ricerca, senza sottovalutare però le enormi spinte alla centralizzazione che il modo in cui la conoscenza oggi è organizzata comporta. Con la digitalizzazione la quantità di dati e informazioni disponibili è enorme, e per evitare gli effetti di verticalizzazione e l’instaurarsi di nuovi regimi di sorveglianza e manipolazione dobbiamo sforzarci di costruire regole perché non si creino nuove forme di concentrazione da un lato, ed esclusione dall’altro.

Il secondo ha a che fare col rinnovato ruolo delle istituzioni politiche. Ma anche qui con un caveat.
Il concetto di sovranità, depurato dalla sua pretesa di assolutezza, oggi va declinato prima di tutto nella capacità di integrare aree territoriali dal punto di vista sistemico, sociale e culturale.
E poi nella capacità di giocarsi in relazione a ciò che va aldilà del proprio confine, tenuto conto di quegli intrecci globali che non possono essere disconosciuti.

Non tutte le imprese, non tutte le istituzioni private (come le università, per esempio), non tutti gli Stati nazionali saranno in grado di stare a questo nuovo gioco, che è destinato a dare forma al mondo del futuro. Anche per questo è necessario affrettarsi ad avviare la transizione che dovrà necessariamente scommettere sulle nuove generazioni, rendendo al tempo sopportabile il passaggio quelle che le precedono, troppo spesso restie a “lasciar andare”.
Come molte ricerche ci dicono, la gestione della complessità non può prescindere dalla qualificazione dell’elemento umano. L’efficienza delle istituzioni, la ricerca e la tecnologia sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Il governo della complessità richiede senso di responsabilità ma anche conoscenze e capacità di comprensione del mondo in cui si vive da parte dei singoli individui che compongono queste organizzazioni complesse. Questo vuol dire che l’investimento in formazione, cominciando dalla scuola, passando dall’università, arrivando anche dentro le imprese e lungo l’intero corso della vita è condizione necessaria per entrare nel futuro senza pregiudicarlo.

Così come è necessario creare sistemi coesi capace di costruire quel senso di fiducia senza il quale si sprigiona solo una domanda irrazionale di sicurezza, che impedisce di giocare quelli che sembrano solo problemi come volani di rilancio dell’economia del Paese.

Al contrario, abbiamo bisogno di mondi sociali che, tornando a imparare la lungimiranza, siano capaci di generare coesione, sapendo che il senso di sicurezza e di fiducia sono beni comuni indispensabili per creare un ambiente dove l’iniziativa e l’intrapresa personale – espressione concreta della capacità di “correre il rischio della vita” – possano tornare a esprimersi.

 


Chiara Giaccardi è professoressa ordinaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista “Comunicazioni Sociali”. Collabora con il quotidiano “Avvenire”.

Si occupa di trasformazioni culturali legati ai processi di globalizzazione e alla rete ed è membro della Pontificia Accademia per la Vita ed è presidente di Eskenosen, associazione di famiglie che opera dal 2006 per l’accoglienza e l’accompagnamento di famiglie di migranti e rifugiati.

 

Immagine: © Paolo Tosti

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