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La Nuova Strategia Economico-energetica Degli Usa

La nuova strategia economico-energetica degli Usa

di Intervista a Marco Margheri a cura di Andrea Vallone

Gli Stati Uniti hanno impresso una decisa accelerazione alla transizione energetica, tornando a fare della politica industriale il fulcro della loro strategia. Questa svolta – il cui motore è stato dapprima l’Inflation Reduction Act (IRA), un colossale pacchetto di sussidi per l’innovazione energetica, e poi il One Big Beautiful Bill voluto dal Presidente Trump – si basa su un modello che privilegia mercato e innovazione, e che sta ridefinendo le dinamiche globali ponendo nuove domande all’Europa e al resto del mondo.

Per comprendere meglio questo scenario e le sue implicazioni, abbiamo intervistato Marco Margheri, Presidente della sezione italiana del WEC – World Energy Council e in USA come Head of US Relations per Eni. In autunno, WEC Italia e WEC Usa organizzeranno la terza edizione del dialogo bilaterale sull’Energia.

Quali segnali arrivano dagli Stati Uniti sulle politiche per l’innovazione, dopo l’Inflation Reduction Act e il One Big Beautiful Bill?

Negli ultimi anni, la politica industriale è tornata ad essere la spina dorsale della visione economica degli Stati Uniti, sia con l’amministrazione Trump sia con quella Biden, pur con modalità diverse. L’IRA targata Biden ha mirato a trasformare la struttura produttiva americana verso gli obiettivi derivanti dalle politiche sul clima, utilizzando la politica industriale per guidare la trasformazione dei modelli di business e delle filiere di investimento.

L’elemento più interessante è stato l’approccio, molto diverso da quello europeo: una notevole apertura a tutte le soluzioni energetiche, all of the above. A differenza del modello tassonomico europeo, l’IRA ha favorito la competizione tra tecnologie sul mercato, stanziando ingenti risorse non solo per le rinnovabili ma anche per la riduzione delle emissioni nelle filiere tradizionali, per la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate e per sviluppare tecnologie di frontiera. Questo ha prodotto due effetti: una forte catalizzazione degli investimenti e un momento di frizione con l’Europa, che ha contestato previsioni tecniche su filiere come automotive, batterie e persino solare e idrogeno. Proprio sull’idrogeno, l’Europa si è scoperta meno attrezzata a rendere vitale una filiera su cui aveva investito per anni.

La nuova amministrazione punta invece a usare la politica industriale per ricostruire il tessuto manifatturiero eroso da decenni di delocalizzazione, definendo tuttavia nuove priorità riflesse nel One Big Beautiful Bill. La sfida centrale è quella del nuovo salto tecnologico su cui gli USA vogliono vincere la corsa con la Cina: lo sviluppo dell’AI e della catena energetica legata ai Data Center, che stanno generando un’enorme crescita dell’offerta di energia base load. L’urgenza sta attirando investimenti straordinari, confermando la logica di fondo: usare l’azione pubblica e la politica industriale come leva, lasciando che siano poi gli investitori a scegliere e sviluppare progetti e business model.

Come si bilanciano negli Stati Uniti gli stimoli pubblici e l’iniziativa privata nella transizione energetica?

L’approccio statunitense si basa sulla sperimentazione e sull’innovazione e nel corso degli anni si è distinto sempre più da quello europeo. Mentre l’Europa ha privilegiato stabilità regolatoria e principio di precauzione, costruendo anche le politiche climatiche ed energetiche con un approccio top-down, gli Stati Uniti hanno incentivato l’offerta con strumenti di mercato e capitali privati. Nessuna amministrazione ha veramente agito per regolare e condizionare il lato della domanda.

Il risultato è un ecosistema flessibile e rapido, sempre alla ricerca di opportunità di breve, medio e lungo termine. In un’America accusata dall’Europa di “corto-termismo”, l’ecosistema finanziario privato sta sostenendo con una crescita esponenziale un settore industriale interamente da costruire come l’energia da fusione, che in cinque anni ha raggiunto i 10 miliardi di dollari di capitalizzazione privata.

In termini di risultati, l’Europa ha ridotto le emissioni complessive in modo sostanziale (il 37% tra il 1990 e il 2022), mentre gli Stati Uniti hanno ridotto le proprie emissioni di meno di un decimo. Tuttavia, se aggiungiamo la crescita economica (che negli ultimi 15 anni ha visto un’Europa asfittica e un’economia americana quasi raddoppiata), vediamo che gli USA hanno più che dimezzato l’intensità emissiva per unità di PIL, costruendo un’economia nuova, basata su tecnologia, innovazione e creazione di valore che anche in campo energetico ha dato frutti straordinari. Questi due modelli devono dialogare, ma l’Europa rischia di restare indietro se non migliora il suo orientamento alla crescita e la sua capacità di liberare investimenti, idee, tecnologie.

Lo slancio delle aziende europee verso investimenti negli USA sta continuando?

Non sta solo proseguendo, ma in campo energetico va verso un ulteriore consolidamento.

Nonostante i toni accesi e gli sviluppi, le conversazioni sul commercio che stiamo vedendo in questi giorni si innestano su scambi di prodotti energetici in crescita (come il GNL), su cooperazioni tecnologiche tra le sponde dell’Atlantico, sulla necessità di cooperazione nei grandi progetti internazionali di ricostruzione delle catene del valore (pensiamo all’azione congiunta americana ed europea su IMEC – l’India Middle East Corridor o al Corridoio di Lobito, con un ruolo centrale anche per l’Italia con il Piano Mattei).

Al momento non conosciamo ancora i dettagli specifici dell’accordo iniziale USA-UE.

Il dato sulle esportazioni energetiche, legato a nuovi progetti, si accompagna alla promessa di maggiori investimenti europei negli USA. Il trend va certamente verso un rafforzamento dei rapporti commerciali, industriali e tecnologici; l’ecosistema dell’innovazione energetica, nonostante i momenti di incertezza di questi mesi, esercita una forte attrazione, soprattutto nelle aree in cui si stanno realizzando trasformazioni epocali. L’intelligenza artificiale, l’innovazione tecnologica in campo energetico – il nucleare di nuova generazione, gli Small Modular Reactors, i biocombustibili avanzati, le tecnologie per la cattura e riutilizzo del carbonio, la fusione – rappresentano assi prioritari, in una corsa in cui il solo altro player capace di ambizioni così vaste sembra essere la Cina.

Nei prossimi anni è ragionevole pensare che gli Stati Uniti punteranno a confermarsi una piattaforma attrattiva per gli investimenti e orienteranno sempre più le proprie scelte verso le grandi sfide di competizione internazionale – l’energia è certamente una di queste.

La finanza reagisce spesso a segnali di contesto. Quanto conta la stabilità normativa americana per attrarre investimenti energetici di lungo termine?

Il sistema americano si è costruito negli ultimi decenni per valorizzare le risorse energetiche domestiche e dare resilienza al resto dell’economia. Si chiamava Energy Independence, ma i numeri sono tali che l’amministrazione oggi chiama la propria politica Energy Dominance: da un lato, la capacità delle filiere energetiche tradizionali di rispondere agli andamenti di mercato con straordinaria velocità, garantendo forniture sicure e competitive attraverso efficienza e strumenti finanziari; dall’altro, l’accelerazione di collaborazioni e investimenti industriali per far avanzare e portare a scala innovazioni tecnologiche.

Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti sono passati dall’essere uno dei grandi consumatori del mondo, esposti ai mercati f inanziari, a diventare il primo produttore di petrolio e gas. Si tratta di una trasformazione che è stata resa possibile dalla tecnologia, dal fracking, ma anche dall’ecosistema finanziario che ha accompagnato questi sviluppi tecnologici e li ha fatti evolvere nel tempo attraverso cicli industriali che hanno attraversato anche momenti drammatici.

Nella logica dell’amministrazione, questa è una differenza importante rispetto alle nuove filiere: l’oil & gas americano si è sviluppato con risorse, tecnologie e finanze statunitensi domestiche (anche se in un sistema interconnesso con altri attori come il Canada). Le energie della transizione, invece, dipendono da supply chain non domestiche, come quella del solare, dove la Cina è al contempo un attore ineludibile e il principale concorrente internazionale. Questa dipendenza è percepita dall’Amministrazione come un rischio geopolitico che deve spingere gli USA, ma anche l’Europa, verso una gestione della competizione basata su una strategia di de-risking. E qui emerge un punto chiave nel rapporto USA-UE: serve la consapevolezza che nessuno dei due può farcela da solo.

L’UE ha bisogno della visione, della velocità, della scala dell’ecosistema americano – oltre che dell’accesso al mercato americano – mentre gli USA, per competere con la Cina, non possono rinunciare al ruolo, alle relazioni, alla capacità di dialogo e agli strumenti europei, specie in quei territori strategici come l’Africa Subsahariana.

In che modo finanza e industria energetica stanno collaborando per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione e sostenibilità?

Il trilemma energetico – la necessità di bilanciare competitività, sicurezza e sostenibilità – è una coperta corta da sempre. C’è ora la consapevolezza che serve una visione più bilanciata. Oggi servono capacità di esecuzione e delivery, resilienza e adattamento delle politiche all’accelerazione tecnologica. La finanza deve accompagnare questo cambiamento a tutto campo, non chiudersi nelle torri d’avorio delle tassonomie. Finanziare la decarbonizzazione significa per esempio accompagnare l’industria energetica a ridurre le emissioni e ad aumentare la capacità tecnologica-industriale per catturare, stoccare e utilizzare la CO2. Questi sforzi non possono non rientrare nelle priorità della finanza sostenibile. La Banca Mondiale stessa ha iniziato un percorso di ripensamento, reintegrando il nucleare nella sua lending strategy e sviluppando nuovi strumenti per ridurre le emissioni. Il mondo sta andando nella direzione del pragmatismo e della velocità, un trend su cui anche l’Europa deve interrogarsi.

La geografia energetica mondiale sta cambiando e stanno emergendo nuovi protagonisti. Come ci si orienta in questo scenario?

Credo sia fondamentale lasciare da parte l’idea che la geografia politica ed economica delineata nel secondo dopoguerra sia ancora quella su cui basare le nostre analisi e strategie future. Negli ultimi quarant’anni, la popolazione mondiale è raddoppiata e il PIL globale quadruplicato, modificando gli equilibri in modo irreversibile. L’energia è uno dei settori più esposti a questo cambiamento. I nuovi protagonisti emergenti aspirano a un posto attivo al tavolo delle decisioni globali. Lo vediamo nel Golfo, in India e in America Latina, dove attori come il Brasile puntano a un ruolo centrale nel dialogo energetico e climatico, come dimostrerà la COP30.

Viviamo in un mondo che potremmo definire “pluribilaterale”, dove se l’Europa vuole mantenere la leadership che ha esercitato per decenni nelle piattaforme multilaterali, deve essere presente e unita, con pragmatismo e capacità di dialogo, ascoltando le priorità di tutti, stimolando la propria economia verso l’innovazione e la crescita che i nuovi attori perseguono con ambizione e velocità senza precedenti.

 

Marco Margheri è Presidente della sezione italiana di WEC – World Energy Council, che riunisce istituzioni, accademia, associazioni e aziende attorno ai principali temi del dibattito energetico. Oggi negli USA è Head of US Relations per Eni. Nel settore energetico, ha a lungo lavorato in Edison e precedentemente in GE Oil&Gas. È componente del Consiglio di Amministrazione dell’Atlantic Council, professore a contratto presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma, e Membro Onorario della Fondazione Milano per La Scala.

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