
Terrori e speranze convenzionali
di Giulio Sapelli
Il lavoro analitico e creativo raccolto in questo numero di Comprendere rende manifesto uno sforzo corale della redazione della rivista per promuovere una sorta di necessaria e sempre più urgente “razionalizzazione” della questione nucleare. Un tema che si pone nel frastagliato mondo, tanto delle relazioni internazionali, quanto delle angosce collettive odierne in ogni latitudine e longitudine. Ogni tentativo di sottrarre un tema misterioso alla superficialità di sguardi approssimativi e terrificanti conduce sempre all’agnizione.
Per quanto mutevole nel profondo psichico, esso determina il sorgere e il risorgere d’interminabili percorsi angosciosi, che l’intellettuale deve seguire e arginare.
Comprendere compie, come si annuncia sempiternamente nel Suo titolo (perché comprendere è ben diverso da conoscere) anche con questo numero un’operazione culturalmente complessa e poliedrica. Intende offrire una visione a tutto tondo della questione nucleare e riportarla alla sua origine: la storia dell’Ingegno umano individuale e collettivo. Gli usi civili eccezionali derivanti dall’atomo ne sono una dimostrazione e relegano l’elemento militare, troppo spesso evocato, così come quello energetico, non sempre percepito nella sua forma più benefica. Piuttosto che relegarli ai margini, il tentativo è di collocarli nel loro giusto contesto, consentendo un approccio guidato dalla ragione, anziché offuscato dall’angoscia.
Ma veniamo al tema del nucleare e della pace e della guerra, che è ora emerso potentemente alla ribalta di questi anni.
Raymond Aron – un maestro che mai come in questi tempi mi appare vicino e consolatore e stimolatore di sempre nuove fatiche, il cui lascito è duplice per un paradosso caratteristico, come accade per quel pensiero allo stesso tempo audace e modesto che è proprio dei Grandi – ambiva a presentare una teoria generale delle relazioni internazionali, in cui la questione della minaccia e della deterrenza termonucleare non poteva essere ignorata. Nella pluralità dei centri decisionali con cui la questione via via si manifestava, la “bomba atomica” diventava per Raymond Aron il punto di partenza di un percorso analitico che lo portò a definire le “sei questioni fondamentali per lo studio delle costellazioni diplomatiche”. Tra queste, le questioni oggettive: determinazione del campo, configurazione dei rapporti di forza in questo campo, tecnica della guerra.
Le questioni soggettive o “ideologico-politiche” riguardano il reciproco riconoscimento – o la sua assenza – tra le unità di guerra, i rapporti tra politica interna ed estera, e il significato e finalità di quest’ultima.
In terzo luogo, l’analisi dei sistemi internazionali – intesi come gruppi organizzati in base alla competizione tra le loro unità – porta alla distinzione tra sistemi pluripolari e bipolari. La specificità delle relazioni internazionali e la differenza fondamentale tra politica estera e politica interna, tra il modello ideale di condotta diplomatico-strategica e quello di condotta civica, costituivano il punto di forza di una analisi distintiva che dovremmo continuare ad usare anche oggi. In questo costrutto analitico, esiste una chiara differenza tra la “politica del potere” in un contesto dominato dal rischio del ricorso alla forza da parte tra unità concorrenti, e l’uso del potere coercitivo da parte dello Stato all’interno di una comunità, dove ne detiene il monopolio. Una differenza che altro non è che quella tra i conflitti e le tensioni interstatali – come le guerre – e l’impiego della forza all’interno dello Stato che, seguendo la sempiterna stella polare di Clausewitz, altro non è che l’insieme delle violenze politiche tra gruppi intra-statuali.
Ciò che rende straordinariamente utile l’insegnamento di Aron in questi tempi di rapido mutamento tecnologico – in cui la natura dell’arma atomica, tra fusione e fissione, e il suo impiego per scopi civili diventano sempre più urgenti – è il realismo calmo, avvolgente e rassicurante, contenuta nella sua analisi.
Prima ancora di Clausewitz, il maestro di Aron è Tucidide, che impone di immergere sempre la teoria nella storia: i sistemi sono per loro natura indefiniti, tanto nelle dimensioni teoriche quanto in quelle belliche e materiali. Da qui emerge una sociologia storica dei sistemi internazionali che può divenire anche sociologia storica dei sistemi antropologici viventi e delle angosce che questi determinano.
Le origini e le dinamiche della prima guerra mondiale, studiate non solo da Aron ma, più di recente, con grande finezza dal grande storico australiano Sir Christopher Munro Clark in The Sleepwalkers: How Europe Went to War in 19141 mostrano come nella maggioranza dei casi i conflitti divampino con forza inaspettata a causa di un fallimento diplomatico o di una sorpresa tecnica. Eventi che, sebbene possano sembrare fortuiti, si combinarono per generare catastrofi indesiderate, dando luogo a vere e proprie “guerre iperboliche” del tutto impreviste.
Un tema di straordinaria attualità.
Anche la deterrenza nucleare, dunque, non è una scienza esatta. Non solo perché, secondo la concezione clausewitziana della guerra, la volontà gioca un ruolo determinante, ma soprattutto perché, come si è osservato, «è impossibile, eliminare un pericolo senza aumentarne un altro».
La minaccia suprema è, in teoria, altamente dissuasiva ma nella pratica poco credibile, poiché implica un esito suicida. Al contrario, la minaccia anti-forza – resa ancor più efficace dalla recente rivoluzione nella precisione – è molto più credibile, ma meno deterrente. Se si tenta di rafforzarne l’efficacia dissuasiva, si finisce per aumentare il rischio di escalation, la versione nucleare di quella che Clausewitz chiamava l’ascesa agli estremi. Ciò avviene introducendo, accanto alle armi strategiche, le armi nucleari tattiche, oggi al centro dell’attenzione mediatica, ma con una volontà applicativa pressoché inesistente.
Ecco che emerge un’antinomia: tutto ciò che aumenta la probabilità dell’escalation rafforza la deterrenza ma, al tempo stesso, rende più difficile limitare un conflitto, qualora dovesse scoppiare. Più la deterrenza gioca un ruolo a livello globale, più si rafforza la stabilità al livello superiore; e tuttavia, minore è la stabilità ai livelli inferiori, meno i Grandi saranno tentati di ricorrere all’arma suprema, sentendosi liberi di usare le armi convenzionali, come bene dimostrano le proliferanti guerre di oggi.
Così continuiamo a placare i nostri terrori di un conflitto nucleare combattendo guerre convenzionali. Pare non vi sia scelta.
Non resta allora che concentrare sempre di più la nostra attenzione su ciò che ci allontana dalla guerra: il nucleare energetico e le sue applicazioni mediche e il suo immenso e misterioso potenziale computazionale, che spalanca prospettive infinite.
Aspettando Godot.
VLADIMIRO: Quando ci penso… mi domando… come saresti finito… senza di me… in tutto questo tempo… (Recisamente) Non saresti altro che un mucchietto d’ossa, oggi come oggi; ci scommetterei.
ESTRAGONE: (punto sul vivo) E con questo?
VLADIMIRO: (stancamente) È troppo per un uomo solo. (Pausa. Vivacemente) D’altra parte, a che serve scoraggiarsi adesso, dico io. Bisognava pensarci secoli fa, verso il 1900.
ESTRAGONE: Piantala. Aiutami a togliere questa schifezza.
VLADIMIRO: Tenendoci per mano, saremmo stati tra i primi a buttarci giù dalla Torre Eiffel. Eravamo in gamba, allora. Adesso è troppo tardi. Non ci lascerebbero nemmeno salire. (Estragone si accanisce sulla scarpa). Ma cosa fai?
ESTRAGONE: Mi tolgo le scarpe. Non t’è mai capitato, a te?
VLADIMIRO: Quante volte t’ho detto che bisogna levarsele tutti i giorni! Dovresti darmi retta.
ESTRAGONE: (debolmente) Aiutami!
VLADIMIRO: Hai male?
Samuel Beckett, Aspettando Godot, Atto I
[1] Sir Christopher Munro Clark, The Sleepwalkers: How Europe Went to War in 1914, London: Allen Lane, 2012.
Immagine: ©ITER Organization