Per attrarre i talenti non basta il salario
Il lavoro come lo conosciamo oggi verrà presto cambiato in profondità o è già al centro di una rivoluzione che stiamo vivendo senza esserne del tutto consapevoli. Sia che questo accada per il tanto discusso arrivo di robot e altri strumenti che automatizzano sempre più i processi produttivi, sia come risultato di trend economici e sociali legati a cicli storici e al fenomeno della globalizzazione. Se il lavoro cambia, è anche la comunicazione a doversi adeguare in qualche modo al nuovo contesto. Dopotutto, oltre alle nostre attività, comunichiamo innanzitutto il ruolo che ambiamo a ricoprire nel contesto economico-sociale nel quale opera la nostra azienda.
Rete di relazioni e interrelazioni. Andiamo per ordine. La reputazione di un’azienda, che in quanto comunicatori d’impresa siamo chiamati a costruire con un lavoro su più livelli e attraverso diversi canali, non è un monolite statico che deriva dalla somma delle nostre attività, ma piuttosto una rete di relazioni e interazioni che mira a consolidare la fiducia in ciò che facciamo e la credibilità di ciò che diciamo.
Inutile dire che la percezione dell’affidabilità di un’azienda nasce anche dalla sua capacità di proporsi come luogo ideale nel quale avviare una carriera professionale. O proseguirne una già avviata in un altro contesto. Quali sono gli strumenti di comunicazione su cui far leva? Seppur importante, sarebbe eccessivo dedicare attenzione solo all’aggiornamento della nostra pagina LinkedIn corporate o all’inserimento puntuale delle posizioni lavorative aperte sul social dei professionisti (o aspiranti tali).
Domande che fanno identità. Il cosiddetto “employer branding” può essere sviluppato tramite una pluralità di canali, online e offline. Il sito web, per esempio, non dovrebbe essere eccessivamente autoreferenziale e una pura emanazione delle attività di marketing. Gli aspiranti dipendenti saranno certamente interessati al prodotto e alla qualità dei servizi forniti, ma si interrogheranno anche su tutta una serie di elementi che formano la “carta d’identità” di un potenziale luogo di lavoro:
- Quali sono le prospettive di carriera?
- Su quali principi avvengono le selezioni?
- Che misure sono state concretamente implementate per ridurre il divario di genere o per rafforzare la “diversity” della forza lavoro?
- Come sono i rapporti gerarchici all’interno dei vari dipartimenti?
- E quali sono le politiche di welfare aziendale che possono aiutare le lavoratrici e i lavoratori nei momenti più delicati del loro percorso o semplicemente al di fuori dell’orario di lavoro?
Sono quesiti a cui bisogna rispondere non solo per “fare bella figura” e, soprattutto, non solo sul web e sui social media. La reputazione di un’azienda come luogo di lavoro si costruisce anche con uscite mirate sui media generalisti (carta stampata, tivù, i sempreverdi network radiofonici) nelle quali non limitarsi a riportare per l’ennesima volta i dati sulla performance finanziaria o sugli obiettivi di business raggiunti, ma anche le risposte (tramite esempi concreti, se possibile) a quelle domande che abbiamo elencato.
Bisogna delineare i valori. Interviste o reportage che possono soffermarsi anche su specifiche iniziative (un programma a supporto delle start-up del settore, progetti di efficienza energetica nel quartier generale o nelle succursali, la creazione di fondazioni benefiche ad hoc per dare coerenza ai progetti di sostenibilità ambientale e sociale, partnership con università e centri di ricerca) e che contribuiscono a delineare ancor più l’ambito di attività e i valori che guidano la quotidianità di una grande azienda.
Proprio le università possono fornire una cornice nella quale colmare agevolmente il gap, spesso lamentato dal mondo dell’impresa, tra formazione accademica e professioni. “Prestare” il proprio amministratore delegato a un’aula universitaria, per esempio, non è una mera passerella, ma un’occasione per raccontare in modo coinvolgente la mission di un gruppo e gli obiettivi ai quali tendono i suoi dipendenti.
Curiosità che va alimentata. La comunicazione prosegue infatti, non dimentichiamolo, quando una nuova risorsa inizia a lavorare da noi: dal primo giorno, le persone che avviano un percorso in azienda non dovrebbero sentirsi parte di un meccanismo senza volto e di un sistema che scoraggia l’iniziativa e la curiosità del singolo.
Pur nel rispetto delle gerarchie naturali all’interno di un organismo a più livelli decisionali, è importante mantenere un dialogo costante con le proprie risorse. Un dialogo che si esprime attraverso l’intranet, eventi in comune da organizzare al di fuori degli spazi aziendali, momenti di “ascolto” delle istanze per affrontare eventuali criticità o azioni di comunicazione straordinaria per spiegare un passaggio delicato o giustificare un attacco mediatico.
Nella crisi la coesione è chiave. È proprio nei momenti di crisi, quelli che mettono a nudo le nostre fragilità e ci espongono allo sguardo spesso poco informato e impietoso di chi ci conosce solo “per sentito dire” o sommariamente, che il capitale reputazionale accumulato con gradualità e pazienza diventa uno scudo con il quale affrontare le avversità e mantenere coesa la forza lavoro, dall’ad all’ultima risorsa di recente inserimento.
Dimensione “amica” in ufficio. Persone, componente fondamentale di ogni organizzazione, che saranno spinte a spiegare (con passione e con la giusta dose di pazienza) ciò che è stato fatto o verrà attuato per superare il momento di crisi. Persone per cui il luogo di lavoro sarà diventato ben più dello spazio limitato di un ufficio, ma una dimensione “amica” nella quale impegnarsi assieme per il raggiungimento di obiettivi condivisi.
*Twitter: @gcomin